La più grande verità sul calcio olandese non l’ha detta Johan Cruijff e, nemmeno, Marco Van Basten. No, la chiave di lettura definitiva per comprendere due finali mondiali perse, quando sembravano già vinte, e altre svariate batoste calcistiche, ce l’ha data qualche anno fa un filosofo pavese, Max Pezzali.
“Voi non capite un cazzo/ è un po’ come nel calcio” / E’ la dura legge del gol/ fai un gran bel gioco però/ se non hai difesa gli altri segnano/ e poi vincono/ Loro stanno chiusi ma/alla prima opportunità/ salgon subito e la buttan dentro a noi/la buttan dentro a noi/
Ecco, a parte colpire per il lirismo sofisticato di versi come “e la buttan dentro a noi. E la buttan dentro a noi”, in queste poche strofe Pezzali ha il merito di disegnare con chiarezza il destino futbacato di una intera nazione. Loro, gli Olandesi, sono da oltre trent’anni gli interpreti del calcio europeo più offensivo e organizzato che guardalinee abbia potuto celebrare per alzata di bandierina.
Sono il Brasile trasferito all’ombra dei mulini a vento e dei tulipani. Sono l’immaginazione pallonara al potere e il potere dell’immaginazione applicato al calcio. Sono la poesia del pressing a tutto campo, il sublime delle sovrapposizioni veloci, l’estasi del fuorigioco.
Sono, dal 1974: Jongbloed Suurbier Rijsbergen Haan Krol Jansen Neeskens Van Hanegem Rep Cruijff Rensenbrink. Una formazione leggendaria da recitare come fosse un mantra, tutto d’un fiato, squadra corta e compatta, un piacere tattico ma anche mistico. Che, infatti, se te te la fai raccontare da Arrigo Sacchi – gli occhi umidi, la voce rotta dall’emozione – sembra che ti parli dell’apparizione della Madonna a Lourdes.
E’ la religione laica del calcio totale. L’ha creata un collettivo di ragazzi capelloni degli anni Settanta: mentre tanti loro coetanei sognavano di cambiare il mondo e fare la rivoluzione, loro cambiarono il modo di giocare al calcio e rivoluzionarono il mondo del pallone. Con gli olandesi in campo, il pubblico divenne consapevole che esisteva un piacere più grande di vincere e basta: vincere giocando bene.
Purtroppo, la dura legge del goal li ripagò con la mitica, amarissima, doppietta delle due finali mondiali perse (Germania ’74 e Argentina ’78). Da allora, i tulipani hanno continuato a perseverare nel loro angelico vizio di voler giocar bene mentre, alla prima opportunità, gli altri glie l’hanno sempre buttata dentro e tanti saluti.
Questo fino all’odierna edizione sudafricana della Coppa del Mondo. A scorrerla, la formazione attuale sembra solo l’ombra della leggendaria squadra di Cruijff e Neeskens. Anche se la paragoniamo a quella strepitosa di Van Basten e Gullit della fine degli anni ’80, il parallelo appare impietoso per i vari Sneijder, Robben e Van Persie. Per non parlare del gioco allestito dal ct Bert van Marwijk: organizzato certo, ma tutt’altro che spettacolare e offensivo.
Eppure, ieri l’Olanda ha fatto quello che non le riusciva dal 1978. Battuto 3-2 l’Uruguay, si è qualificata, per la terza volta, nella sua storia per una finale mondiale. Domenica, non sappiamo ancora chi si troverà di fronte tra Germania e Spagna. Chiunque sarà l’avversario, però una cosa è certa: l’Olanda giocherà soprattutto contro se stessa per sfuggire al suo destino di sfigata totale. E , forse, persino Cruijff sarà lì davanti alla tv a fare il tifo per i suoi giovani compatrioti, infischiandosene del bel gioco, e augurandosi che – per una volta – la dura legge del goal aiuti loro.
M.D.