Ieri, per le strade di Buenos Aires, avevano addirittura fatto caroselli, per celebrare la sconfitta del Brasile, il vicino calcistico più odiato, nonché un accreditato rivale per la vittoria finale. Perché gli Argentini ci credevano davvero di poterlo vincere questo mondiale. La stampa internazionale e quella di casa li davano ormai per favoriti assoluti, dopo quattro vittorie e lo show contro il Messico negli ottavi.
Persino il CT Maradona, arrivato in SudAfrica tra dubbi e critiche per via di una stentata qualificazione, improvvisamente era tornato per tutti El Diego, mito assoluto dell’argentinità alla pari con Carlos Gardel ed Evita. Le sue debolezze tattiche sembravano riscattate dal carisma. Un laico Padre Pio in doppio petto, ma con il rosario in pugno, capace di infondere nella selecion serenità e allegria. Higuain segnava a ripetizione, Teves girava a mille, e la difesa, nonostante l’assenza di un pezzo da novanta come Samuel, teneva.
E poi c’era quello “zero” nel tabellino del giocatore più importante, quel Lionel Messi che Maradona e il mondo intero hanno già designato erede del pibe de oro. Invece che un limite, l’attesa “messi(anica)” del primo goal di Lionel, faceva sperare tutti per il meglio. Quando anche Messi giocherà ai suoi livelli, si diceva, l’Argentina diventerà ancora più forte.
Ma poi si arriva in campo e la musica, già al secondo minuto, è un’altra. Tra campioncini trovati per strada (Muller e Ozil) e vecchie glorie ritrovate a Villen Arzillen (Klose e Podoslki), la premiata panzeria di Joaquin Low travolge ogni velleità offensiva argentina.
La palla Messi e i suoi la tengono fra i piedi, ma senza combinarci molto, per loro demeriti, ma anche per i meriti dell’avversario: ordinato, veloce, ficcante. Alla fine il punteggio di 4 a zero suona spietato ma sincero. All’Argentina restano i rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e non è stato, come accade in certe storie d’amore infelici raccontate nei tango.